IL FUNERALE DELLA MAMMA
La pittura come espressione del mondo interiore in prigionia: “Quiete”, acquerello del 2010
27 novembre 2007
È un martedì. Mentre a noi donne della massima sicurezza è permesso guardare, in un piccolo locale chiamato“Cineforum”, un film offerto dai volontari, l’ispettrice mi chiama. Lascio in silenzio il locale oscurato, chiudo la porta e seguo la guardia per pochi passi fino all’ufficio. La sovraintendente e l’ispettrice mi stanno aspettando lì. Stanno in piedi fianco a fianco. Regna il silenzio. Che sarà successo?, mi chiedo. L’ispettrice comincia a parlare. La sua voce suona compassionevole: “Dobbiamo comunicarle che sua madre è deceduta. Ne siamo addolorati. Vorremmo esprimerle le nostre condoglianze. Dopodomani lei sarà portata a casa per il funerale. Sappiamo che è una situazione difficile. Sia forte!”
Oh Dio, non piangere, non è questo il momento. La cosa mi colpisce come uno schiaffo ma subentra fulmineo anche un senso di gioia. “Andare a casa!”, ognuna qui si augura solo questo. Ringrazio per la comunicazione e vengo riaccompagnata nella sala cinema. Torno a sedermi al mio posto, così silenziosa che nessuno fa caso a me. Guardo fisso lo schermo, tacendo e ricacciando indietro le lacrime. Non mi accorgo di nulla. Dentro di me scorre un altro film: mia madre se n’è andata, e io sono seduta qui. C’è così tanto che avrei voluto dirle. Sapevo che ultimamente non era stata bene ma che potesse accadere così in fretta non lo avrei mai pensato. Non le ho neanche detto addio. Non so nemmeno se si sia resa conto che ero in carcere, se qualcuno glielo abbia detto e se l’avesse capito. Ricordo l’ultima volta che sono andata a trovarla, qualche settimana fa, allora era completamente assente. Da qualche tempo soffriva di demenza ma era felice della mia visita. Non ci posso credere. I miei sentimenti sono divisi tra la gioia di tornare a casa e il dolore di aver perso mia madre proprio ora. La mia “Mötti”, i miei fratelli e io l’abbiamo sempre chiamata così. È sempre stata una madre speciale, se non altro perché non la chiamavamo “mamma”. Veni