Nel maggio del 1985 visitai l’ex-campo di concentramento di Dachau dove, esattamente quarant’anni prima, per me e i miei amici, si erano aperte le porte verso la libertà. Giunto al campo mi recai subito al museo dove sono esposti diversi documenti e fotografie degli anni che vanno dal 1933 al 1945. Alla vista di certe immagini i miei occhi si riempirono nuovamente di lacrime. Assieme a me c’erano molti altri visitatori provenienti dai più diversi paesi e tra di loro un numero particolarmente elevato di giovani. Nei loro volti si leggeva l’orrore. Nella grande sala regnava un silenzio quasi totale. Si udiva solamente un lieve mormorio.
Nel pomeriggio visitai le due baracche ancora conservate. Poi il luogo dove molti furono impiccati, la cosiddetta fossa del sangue, dove molti furono uccisi con un colpo alla nuca ed infine il crematorio nel quale migliaia di uomini, diventati ormai scheletri o uccisi dalle botte, fucilati o morti per fame «sono passati attraverso il camino» dei forni, come era uso esprimersi a Dachau. Si possono ancora vedere le camere a gas, anche se non erano mai entrate in funzione. Coloro che a Dachau erano destinati alla morte venivano trasferiti in altri campi di concentramento.
Visitai infine le tre cappelle espiatorie costruite successivamente: l’evangelica, l’ebraica e – al centro – la «cappella dell’angoscia di morte di Cristo». A ridosso delle cappelle c’è il convento dei carmelitani e lì, nella chiesa conventuale, pregai per i miei compagni morti. Durante la visita pensai intensamente ai giorni e agli anni passati.
La mia strada per Dachau era segnata fin dal 1939. Nel giugno di quell’anno la Germania nazionalsocialista e l’Italia fascista diedero l’inizio al trasferimento dei sudtirolesi. Ci regalarono la cosiddetta opzione. La gente fu messa di fronte all’alternativa di optare per la cittadinanza germanica, coll’esplicito obbligo di emigrare nel Reich germanico, o di mantenere la cittadinanza italiana sotto la minaccia del divieto di ogni ulteriore richiesta di diritti di minoranza. Chi non si dichiarava sarebbe rimasto cittadino italiano. L’attuazione dell’accordo fu affidato al famigerato capo della SS e della Gestapo, Heinrich Himmler. A quel tempo io quindicenne, figlio di contadini, non sapevo né capivo nulla. Ricordo solamente il profondo spavento della gente quando seppe di quest’accordo. La maggior parte della gente non voleva crederci; non poteva essere vero, diceva.
Quest’era lo stato d’animo della gente della val Sarentino a luglio e anche all’inizio d’agosto, e probabilmente